A quelli che parlano a vanvera, in modo sconclusionato, grammaticalmente scorretto, ecc. e che hanno una certa propensione alla calunnia, ma non ne sono coscienti (il demone in loro invece sì)

Il monumento alla stupidità

L'asino di Biberach

Ispirandosi all’opera di Wieland sulla piazza centrale di Biberach an der Riß è stato innalzato un monumento alla stupidità umana rappresentata dalla statua di un asino composto da corpi umani con questa iscrizione: «”Il processo per l’ombra dell’asino” – Questo “monumento” s’ispira al primo romanzo satirico scritto in lingua tedesca: “Storia degli Abderiti” (1781).Christoph Martin Wieland (1733 – 1813) – figlio di una vecchia famiglia di Biberach e autore più letto del suo tempo – descrive in questo romanzo il processo assurdo che è stato intentato per l’ombra di un asino e che ha quasi scatenato la guerra civile nella città fiorente di Abdera. Abdera è dappertutto, dice Wieland, ma innegabilmente questa storia porta il colore locale di Biberach. Nei negozi vicini c’è una descrizione dettagliata. I cittadini e le imprese seguenti hanno contribuito alla creazione di questo monumento: [Segue l’elenco degli sponsor ufficiali] e altri cittadini che non desiderano essere menzionati.»

Le Muse

Insieme sembrano confabulare,

i sospiri si frammettono a sussurri,

sanno ascoltare, sanno parlare, sanno creare.

Che Dio ne illumini ancora i passi

che sopravanzano i ricordi degli esseri umani:

e le ritrovi ai tabernacoli,

lungo le mura cittadine sazie d’edera;

e le vedi vicino ai sassi dei fiumi,

che dipingono l’acqua.

Le puoi anche contemplare

mentre sono assorte

e si danno la mano nei campi,

il contadino che li dissoda invece non se ne accorge,

almeno per ora.

D’un tratto appaiono come magia

nelle tele ben dipinte,

i colori profumati assaggiando,

come fossero in cucina

a preparare cibi prelibati.

Porgi loro un pensiero d’affetto,

quando sacre rispettano la Vita

che le ha generate.

In una nota di silenzio

ricamano

le circonvoluzioni del destino.

Alessandra Vettori

L’Apoteosi di Omero, bassorilievo ellenistico del III secolo a.C. conservato presso il British Museum di Londra

Verità

C’era una volta,

nel Cosmo rilucente

che gli antichi Greci

appellavano “Il Glauco”

una gentile figura di donna

con il fuso e la conocchia,

(così anche Dante poi la ritrasse)

dal ritmico battito di stella

avvolta.

Era lì, seduta sul suo trono

leggiadro di nuvole e di specchi

e ci guardava sorridendo.

Io, uomo semplice di strada,

alzai gli occhi al cielo,

sorressi l’ardente sguardo

ricamato nel tessuto universale

che rinviava sulla Terra

amore, devozione, conoscenza.

Socchiusi gli occhi

poi li riabbassai,

ero gioioso,

d’entusiasmo armato.

Alessandra Vettori

Tempo salva Verità da Invidia e Falsità, di François Lemoyne (1737).

Il vocabolario è un grosso libro… una fiaba di Alessandra Vettori

“Il vocabolario è un grosso libro”

Il vocabolario è un grosso libro, tutto pieno di parole, delle quali non tutte conosciute. Anzi, molte proprio non le conosciamo.

Un giorno, non sappiamo quale, potrebbe essere stato anche sempre e dove fu, non sappiamo, potrebbe essere stato anche dappertutto, un giorno, dicevo, ci fu un fatto strano.

La parola “poesia”, che nel vocabolario per l’appunto stava stretta tra le parole “poema” e “poeta”, un giorno, ma era davvero un mattino pieno di sole e di chiarore, si svegliò sulla carta di una pagina, la numero 1694, e tutta contenta cominciò a sbadigliare.

Il sonno era stato lungo, si accorse che il tempo era passato, le pareva quasi di sentire un suono di un magico strumento in lontananza, forse un oboe, oppure un clarinetto, o forse una viola. Il suono era cadenzato e lei, con fare leggiadro, decise di volteggiare sulla pagina del librone, cercando anche di sgomitare un po’; fra l’altro, dopo essersi messa un occhialetto ottocentesco per visualizzare meglio il campo attorno a lei, vide, che prima di “Poema” vi era il termine “podùra”, una sorta di animaletto insetto comune in ogni pozzanghera d’acqua plebea, e dopo altri vocaboli da lei derivati, stava un “poffarbacco” altrettanto umile e plebeo.

Lei, la Poesia, si tolse l’occhialetto e decise così, su due piedi, senza tanto pensarci, di scendere dalla pagina e uscire dal vocabolario. Lì per lì sentì come una brezza leggera che entrava dalla finestra dello studio dello scrittore che le rinfrescò il volto tanto nobile e bello, come quello di un angelo. Lei, la parola “poesia”, fece un bell’inchino al vento, che condusse con sé la voce dell’ angelo e, mentre saliva verso il soffitto della stanza, diveniva amore che tesseva un senso di sacrificio e di beatitudine, che raffreddava il troppo calore, che riscaldava il troppo gelo e saliva più su, ancora più su, oltre il soffitto, sul tetto spiovente della casa. Poesia si mise a pensare e il suo impulso buono, bello e vero, la voleva convincere a salire con la voce celestiale, verso il cielo cristallino e puro, pienamente libera e felice. Poesia era tentata, tentata da quest’impulso forte e incantato. Lasciò andare sul tavolo dello scrittoio il suo occhialetto e la sua attenzione venne rivolta giù, verso il basso e verso il pavimento composto da mattonelle grigie e bordeaux, che costituivano un bel rettangolo e, attorno al rettangolo, delle sfiziose cornicette. Per una volta, qualcosa che apparteneva alla terra, la tenne più desta del cielo e lei si chiese perché. Non lo sapeva, il suo era un comportamento insolito, che mai avrebbe tenuto in altre circostanze. Però le cornicette erano tanto amabili…. Quasi la chiamavano a giocare con loro e Poesia, chissà come, si ritrovò a riflettere sul fatto che la musica che l’aveva svegliata veniva da loro. Dunque scese, o scivolò leggermente sul gambo del tavolo fino a terra e decise di perlustrare, no, di esplorare il terreno sul quale adesso era atterrata, come una soffice foglia che cade dall’albero in autunno.

Non era autunno, se ne rese conto nel vedere, alzando lo sguardo sui vetri della finestra della grande stanza, timidi rondoni che con il loro becco piccolo e laborioso, intrecciavano fili d’erba e di fieno per i loro nidi. Poi vide la luce del giorno che ballava allegramente sugli oggetti intorno a lei e le indicava con il suo splendore invisibile, i salti e i balzelli della polvere che girava in moti vorticosi.

Poesia camminava sul pavimento con un portamento aristocratico e gioviale, si avvicinò a un gatto soriano che dormiva – come prima aveva fatto lei – nella sua cuccia di vimini.

Scusa, Gatto, – sussurrò all’orecchio del felino domestico che aprì gli occhietti furbastri d’un tratto e si mise a contemplarla incuriosito – dov’è che siamo, di preciso? E soprattutto dimmi: in che tempo siamo? Perché ho dormito molto, sai, e vorrei saperne di più di quanto è accaduto mentre ero assente… -.

Gatto continuò a squadrarla: – Tu, chi sei? – chiese poi.

Mi chiamo Poesia – fece lei con sussiego, al ricordo di chi fosse -.

Ah – rispose Gatto un poco annoiato, o forse voleva farle notare che non era così colpito nell’incontrare un essere senza peli né baffi né altro che rammentasse un gatto. – Non so niente di quel che accade qui, dovresti chiederlo al Saggio di casa, ma non si trova in questo studio.

Dove potrei trovarlo? – esclamò lei tutta eccitata al pensiero di avere una conversazione con un saggio.

Devi percorrere lo studio e andare fino in fondo a questa stanza…, la vedi quella porta di ciliegio? –

Sì – annuì Poesia.-

Al di là di quella soglia che t’ho detto, c’è il Saggio che cerchi – suggerì Gatto e si rimise a dormicchiare.

– Scusa, Gatto, ma come faccio a riconoscerlo, questo Saggio? – domandò Poesia un poco sorpresa dalle poche notizie che l’animale aveva voluto darle.

Gatto non proferì altra sillaba e lei, allora, intimidita, ma decisa, si diresse alla porta di ciliegio e oltrepassò la soglia con coraggio.

Entrò in un’altra stanza, più grande della precedente, con carta da parati azzurra e bianca alle pareti e un bel camino spento e su un lungo tavolo di radica, al centro, come fosse un soprammobile, solo una statuina di ceramica a forma di vecchio sapiente, con lo sguardo buono e con il bastone del comando, con la barba lunga e i baffi bianchi e due occhi assai severi, ma profondamente espressivi, colorati da una compassione e da un amore che sembravano infiniti.

Non c’era altro o altri, nella stanza e Poesia pensò che la Statua fosse il Saggio oppure che il Saggio fosse la Statuetta. Comunque sia, poiché non si era preoccupata molto che Gatto parlasse, non le balenò per il corpo di Parola alcun dubbio che quello davanti a lei potesse conversare e rispondere alle domande che premevano sulla sua anima di bambina.

Che mirabile Puella Eterna, vedo comparirmi davanti! – disse con soddisfazione il Vecchio Saggio.

Poesia sentì in latino parlar di lei stessa (Bimba Eterna) e ne fu lieta.

Prima aveva camminato sul suolo scendendo dallo scrittoio con un incedere gioioso e pieno di aspettativa, adesso però s’incupì perché il Saggio le disse che si era risvegliata nei tempi moderni, ma tutto il paesaggio attorno a lei era cambiato. C’erano ancora la Natura verdeggiante e i fiori, sì, ma c’erano anche le macchine e troppa era la tecnologia che dominava l’uomo e quasi tutto era diventato meccanico e metallico, le persone parlavano sempre più con grande difficoltà l’una con l’altra e si capivano sempre meno. C’erano i foglietti e le monete che avevano acquistato sempre più importanza e la musica la si sentiva quasi di rado. Alle volte, disse il Saggio, mi sembra di udire un fagotto che suona, ma i rumori della strada e delle auto coprono le melodie e sembra che le melodie siano fuggite dal mondo degli uomini e che non vogliano tornare più qui. Sembra proprio che nessuno voglia ascoltare le storie che prima venivano raccontate frequentemente. I versi e le rime sono scappate dai libri, pare che siano incomprensibili ai più.

Poesia si era davvero intristita nel seguire l’Amico Saggio nel suo narrare inquieto e doloroso e non sapeva cosa potesse fare, lei, una piccola parolina che qualche secolo prima era come il comandante delle anime e muoveva eserciti musicali, armonici, ritmici e melodiosi verso i colori più brillanti, verso le verità più profonde, verso le elevazioni più pure e più vere. Si disse che un tempo Poesia riusciva ad elevare le cose umili, a chiamare Angeli e Arcangeli in terra e la soglia del mondo da cui lei veniva non era per niente il vocabolario, ma un mondo vero e proprio, tanto ricco di amore a tal punto che questo Amore rompeva le dighe e fluiva dappertutto e non aveva limiti né ostacoli che potessero fermarlo e riempiva i cuori degli uomini che credevano nella potenza di quel tesoro più di ogni altro tesoro e questo Amore era semplice e silenzioso, ma vasto e fiero. Quando lui agiva, le lingue parlavano lo stesso linguaggio, il linguaggio dell’anima, ogni uomo comprendeva l’altro fin nelle più profonde corde dell’interiorità ed era sempre lui che foggiava le parole e le faceva vivere e risuscitare.

Già disse il Saggio – sembra che questo tempo sia perduto per noi e non tornerà più, mai più. Quindi, si chiuse in un ostinato mutismo.

Poesia era esterrefatta e lo guardava a bocca aperta con una punta di amarezza negli occhi.

Fu un attimo.

Trascorso l’attimo, ecco che a lei venne un’idea formidabile e cercò, nel suo corpo diafano, tenero e dolce, di trasformarlo nell’Eterno. L’Eterno Femminino che era in lei.

Perciò oltrepassò nuovamente la soglia, la porta di ciliegio, ripassò dallo studio e si inoltrò su, verso alcune scale che aveva visto al suo risveglio.

La voce la chiamava su, sempre più su, in alto, il fagotto si univa ai violini, la solennità della musica si univa adesso alla mite dolcezza che disegnò davanti a lei una nuova porta.

L’Angelo e la sua Voce la chiamavano, risuonavano e la loro meraviglia, quasi divina, penetrava nella stanza al di là di questa nuova porta, e il suono la condusse, finalmente, davanti a un oggetto tanto strano, una grossa cesta con ruote ricoperta di un tessuto bianco pulito e soffice.

E dentro, c’era un bambino, il figlio dello scrittore, appena nato, un bel neonato che sorrideva e sorrideva e il suo sorriso che sapeva di benedetto e di candore, un profumo delicato e inesprimibile a descriversi, coprì d’un tratto le macchine e i rumori, e abbracciò Poesia con le sue tenere manine candide e le fece intendere che tutto sarebbe ricominciato dall’inizio, più bello di prima perché più nuovo, “basta avere – sembrò dirle il cherubino – coraggio, fede, amore” e le fece intendere che lei sarebbe davvero rinata, risorta a nuovo, come se non si fosse mai addormentata, come se non fosse mai mancata.

Firenze, 8 giugno 2012

Alessandra Vettori

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